"Un vagabondo suona in sordina" di Knut Hamsun (traduzione dal norvegese e postfazione di Fulvio Ferrari) - Iperborea, 2005.
“Io non ho omicidi da raccontare, ma gioie e sofferenze e amori. E l’amore è violento e pericoloso quanto un omicidio.”
È così, detto tra sé senza darvi peso, tra “le parole serene” con cui descrive l’incanto dei boschi d’estate, il mormorio dell’aria e il limpido disegno della melodia di un tordo, che Knut Pedersen lascia balenare fin dal prologo il cuore del dramma di cui sarà l’inaffidabile testimone e narratore. È ancora il vagabondo di Sotto la stella d’autunno che Hamsun mette a protagonista di questo romanzo – “i suoi due libri più belli e più tersi”, li definisce Claudio Magris – l’irrequieto alterego cui dà perfino il proprio nome, moderno epigono del romantico perdigiorno che ha smarrito la svagata spensieratezza di un’anarchica e libera autoemarginazione, per incarnare la nevrotica lacerazione tra l’io e quella vita che, nel suo rifiuto di ogni senso e legame, perennemente gli sfugge. Questa volta è verso il passato che lo portano i suoi passi, a Øvrebø, alla casa dei Falkenberg, dove sei anni prima si era innamorato della signora, la bella e inquieta Lovise, nella speranza che l’emozione risvegli i battiti del suo cuore restituendogli l’illusione di vivere. Ma, nonostante i suoi mascherati tentativi di partecipare, resta solo spettatore del drammatico gioco degli amori e delle gelosie, delle ripicche e vendette, dell’ebbrezza del fatale abbandonarsi alla passione di cui sono protagonisti e vittime il capitano e la moglie e i loro sregolati ospiti nel disordine dilagante del podere. “Un vagabondo suona in sordina quando raggiunge il mezzo secolo di vita”: camuffato nella sua barba grigia, indossati i panni della vecchiaia, può attutire rumori e furori e riprendere con affettata indifferenza il suo cammino, sapendo che “l’età non porta nessuna maturità, l’età porta solo la vecchiaia”. È sempre troppo presto o troppo tardi per cogliere le bacche dell’autunno, il silenzio torna nella valle quando si spegne l’eco della valanga, resta il caparbio abbandono al mormorio dei boschi, alle sensazioni dell’attimo e, come dice Magris, “la fragilità di una conoscenza della vita che serve così poco a vivere”.