"La vergine fredda" di Jørn Riel (traduzione dal danese e postfazione di Carola Scanavino) - Iperborea, 2002.
Bianco ovunque, il bianco di una neve perennemente immacolata, distese scintillanti, iceberg che i giochi di luce trasformano in fantomatici velieri alla deriva, un cielo vertiginosamente alto, di un azzurro così azzurro da parere il colore dell’eternità, e poi una notte interminabile di buio e silenzio che dura sei lunghi mesi: una natura estrema, quella artica, che non lascia indenne nessuno.
E indenni non sono certo quei venti cacciatori che abitano sulla costa Nord-Est della Groenlandia, di cui Riel racconta con ironia e simpatia le improbabili avventure. Asociali impenitenti, divertenti e crudeli, rozzi e commoventi, sono personalità troppo selvatiche per il vivere civile, malati del “virus delle terre vergini”, preferiscono starsene ai margini, lontani migliaia di chilometri da ogni conglomerato, unici esseri umani in un mondo popolato da narvali e volpi azzurre, buoi muschiati e orsi polari, in cui nulla appare inverosimile. Una meravigliosa fanciulla fatta di sogni che scalda cuori e letti con il suo appassionato candore, un cadavere tenuto in salamoia che diventa un caso poliziesco mondiale, un boa sentimentalmente legato a un cercatore d’oro, un’indigestione di sardine che salva una creazione letteraria: infinite sono le variazioni costruite intorno agli stessi personaggi che scompaiono e ricompaiono in venti Titoli di avventure artiche. Ma sempre, al di là del divertimento, resta un senso di libertà, di amicizia e di un’umanità maturata davanti alle sfide, ai pericoli, ai silenzi, alla grande vertigine che assale in quelle buie solitudini polari, in un dialogo con quella grandiosità che entra dritta nell’anima, scacciando il piccolo comune mortale che la abita per ritrovare, come Pedersen, Fjordur e gli altri, il vero se stesso.