"Leopardi" di Pietro Citati - A. Mondadori.
Al principio della sua vita, Giacomo Leopardi era felice. Nell'infanzia, gioia, furia, «allegrezza pazza» riempivano le sue giornate.
Era amato e ammirato dai fratelli. Il padre Monaldo pareva uscito da un'opera buffa: chiacchierone, bizzarro, paradossale, del tutto inetto a sopportare la realtà. La bellissima madre Adelaide non baciava i figli, non dava carezze, ma Monaldo fu per Giacomo padre e madre insieme, con una tenerezza grandiosa e assorbente. L'immensa biblioteca era il centro della vita familiare; Giacomo vi vedeva riflessi l'ordine e l'armonia dell'universo; ogni cosa aveva un senso. Poi l'infelicità piombò su di lui. Cosa accade a Leopardi nel cuore della sua giovinezza? Un «sistema di malattie» si impadronisce del suo organismo. Giacomo non sente più né la natura né la bellezza; il sentimento, l'entusiasmo si dileguano; l'infelicità umana è irrimediabile. Non gli resta che sopportare: arte in cui diventa, in pochi anni, un maestro. Ma la sua mente è innamorata delle contraddizioni, dei rovesciamenti e degli sdoppiamenti. Così, continua a ricercare la felicità, pur sapendo che è un'impresa disperata. La insegue nel piccolo, accogliente mondo aristocratico-borghese di Bologna; a Pisa, nella tenue aria primaverile; a Firenze, tra le luci autunnali del lungarno; tra i gelati, le pasticcerie e i panorami di Napoli. Vive quasi tutto il resto della sua vita celando i dolori, le angosce, la desolazione, le passioni, la solitudine, il dono di essere un genio immenso.